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Altri dolori
di Emilia Belzoppi 
   
Ricorda la festa del centanario del Santo Patrono. Torquato Tasso alla Corte di Ferrara. Il cielo in fondo al pozzo! Promesse di cambiamento. La Prima Comunione. Leggi anche ...

 

Del 1840 poteva avere circa nove anni, vi fu il centenario del Santo Patrono.

Una festa che viene ogni cento anni era per noi qualche cosa di straordinario! Il giorno si stette in città ed io in casa della madrina della cresima (che da poco mi era stata conferita) e che era la contessa Staccoli Porghesi, la quale, piena di bontà per me, soleva spesso tenermi a desinare.

Al tempo del pranzo il cav. Bartolomeo, insigne antiquario, uomo europeo, soleva trattenersi meco: mi faceva delle domande e rideva alle ingenue risposte, perché vivace e spiritosa non mi confondeva né mi intimoriva.

La sera del centenario, fummo condotti in teatro. Era tutto illuminato a giorno e Giulio Perticari, cui Pesaro annovera fra i suoi uomini illustri, con altri signori distinti, recitò il “Torquato Tasso alla Corte di Ferrara”. Io non batteva palpebra. Sebbene piccina, conosceva la storia del povero Torquato, lo sapevo buono ed infelice e quando comparve in scena vestito in costume e la mamma ci avvisò che era il poeta, tutto il teatro echeggiò di evviva; noi pure battemmo le nostre manine, partecipi all’entusiasmo comune.

La scena: era notte, la luna vagava fra le nubi, or visibile, or nascosta. Un sontuoso palagio con finestre a sesto acuto; attraverso dei cristalli lanciava uno splendore abbagliante che faceva contrasto colla oscurità del difuori.

Sul palcoscenico era una serra, vi erano boschetti, alberi e fiori. Dall’interno del palagio, partiva una musica come di danza: Torquato passeggiava a lenti passi, si fermava di quando in quando, come chi pressa affanno grave, guardando le finestre del palazzo in fondo. “Là suoni e balli” disse “e qui un povero infelice!!!” Non ricordo lo svolgimento del dramma so che più volte ebbi ad asciugarmi una lacrima per le sventure del povero Torquato e lo ricordo come lo vedessi ora.

Fatta giovane, lessi la storia tanto commovente ed il suo poema; nella pochezza di mia scarsa istruzione, ne ammirai le bellezze, aiutata dal babbo che me le spiegava e faceva notare.

Noi crescemmo amorose, ma di una vivacità che poche ne eguaglia. Per quanto studiassi di essere buona e tranquilla, io non vi riusciva. Faceva proponimenti di vincermi all’alzarmi e non arrivava la sera che, dimenticato, non avessi rotto in qualche escandescenza.
Le sorelle mi dicevano la pazza: per ogni piccolo motivo mi davano la baia ed io arrabbiava e dolorava dentro, rifuggendo di rendermi delatrice. Quando era sola, piangeva: pregava la Madre di Gesù che mi facesse morire. Quanta amarezza nel mio piccolo cuore!

Un dì, forse non ne poteva più, ovvero che ogni piccola cosa mi sembrava un gran ché, andai da papà e gli dissi: “le sorelle mi dicono pazza!” Babbo, forse sopra pensiero, o credendo che scherzassi, mi rispose: “Se sei pazza, ti manderemo all’ospedale”.
Sentii una ferita al cuore che non mi permise di pronunziar verbo.
Fuggii, mi nascosi, piansi dirottamente provando un senso di abbandono e di solitudine disperata! Mi era fatta seria, mesta; amava la solitudine.

Quante volte, nell’orticello di San Marino, mentre le sorelle si divertivano con le mie amiche, io mi appoggiavo al pozzo e, attraverso le sbarre che ne assicurano l’orlo, ammiravo il bel cielo che si specchiava nel fondo ed osservavo le piccole nuvolette portate dal vento che, rapide, si rincorrevano!

Quando succedeva pensavo, fra me stessa, che se mi fossi gettata sotto ... dopo pochi istanti ... sarei giunta a quel bel cielo ... ove mi si sarebbero aperte quelle porte d’oro. Là sarei vissuta felice cogli angeli, vestita di candidi veli e, forse, con le ali d’oro avrei potuto udire la musica del paradiso, di quel luogo beato ove avevo sentito dire non esservi più né lutto né dolore!

E fissa laggiù, non vedeva più l’acqua, ma il cielo e nella mia testina, naturalmente esaltata, contemplava le bellezze incomprensibili di quel luogo che mi veniva dipinto con seducenti colori e immaginava tante gioie, tanti fiori ... tanti voli aurei, fatti con quelle celesti creature ... e sentiva un’irresistibile brama di gettarmi laggiù per conseguire tanta felicità.

Se non vi fosse stato l’ostacolo, chi assicura che non mi fossi gettata là dentro?

La mia vita era un fantasticare continuo, un far propositi ed atterrarli alla prima occasione.

Un giorno si lavorava in camera di mammina ed io avevo fatto degli errori nella calza. “Lascia vedere” disse mammina ed io le detti la calza con mal garbo, della qual cosa mi riprese alacremente e mi ordinò di guastare il lavoro. Risposi con rabbia e mi percosse sul viso. Non feci una lacrima. Mi rizzai e, con la fermezza che fu scambiata per impertinenza, dissi: “Questa è l’ultima volta che mi percuote”! E, vedendo che venivo presa in mala parte, mi affrettai a soggiungere. “ Mi percuota pure, me lo sono meritato; ma sarà l’ultima, perché non lo ripeterò più”.

Il sorriso trattenuto delle sorelle era, in quell’istante il mio maggior dolore.

Racconto questo aneddoto perché di qui cominciò il totale mio cambiamento. In pochi istanti provai la rabbia, il pentimento, la tenerezza verso la mamma e se la presenza delle sorelle non mi avesse trattenuta, le avrei gettato le braccia al collo, l’avrei baciata e avrei pianto sul suo seno, sfogando così, l’amarezza di che il pentimento mi inondava il cuore.

Comprendo ora quale studio debba fare una madre sul carattere dei figli e quanto debba essere pronta a schiacciare le passioni nascenti, prima che l’animo se ne impadronisca, prima che il cuore ne resti avvelenato.

La povera mamma, sebbene capo e direttrice totale dell’azienda domestica, sebbene a disposizione dei molti signori che venivano a visitarla, dei pensieri che corrucciavanle l’animo, per l’ingiusta guerra che facevano al caro papà, pure trovava il tempo per sorvegliarci e giungeva improvvisa quando meno l’attendevamo e ci spiava e ci ammoniva.

Certe notti mi prendeva da sola, mi accarezzava, mi dava qualche cosa per confortarmi lo stomaco, come rosolio, cioccolata ecc. Ma per quanto una madre sorvegli, difficilmente legge l’interno delle sue creature; dovrebbe essere uno studio facile, ma non lo è. I mille pensieri, la numerosa prole, possono facilmente far prendere abbaglio. Si può prendere per freddezza ciò che è timore, per rossore ciò che è verecondia e per rabbia repressa ciò che è ragione di chi non vuolsi scolpare.

Io aveva promesso alla mamma di cambiare; l’aveva promesso a me stessa, l’aveva promesso a Dio, piangendo e pregando caldamente perché venisse in mio aiuto.

Era un combattimento continuo.
Non passava giorno che non avessi occasione di inquietarmi: mi accusavano, mi deridevano. Sentivo il sangue darmi un urto al cuore e riversarsi con forza al cervello, poi io divenivo smorta, fredda ... ma non parlavo e cercavo di sorridere.

Ciò che ho sofferto in questi duri combattimenti che durarono più e più anni, non so dirlo! Perdetti la mia vivacità, la voglia di giocare; divenni macilenta, tetra; amavo la solitudine, perdeva sempre più l’appetito, avevo freddo anche al mese di Agosto. Si prevedeva male della mia esistenza. I genitori furono tutta sollecitudine per me; chiamarono i medici, mi curarono, mi nutrirono coi migliori cibi, ma per molto tempo tutto fu inutile.

Un inverno me la passai quasi sempre a letto e nella primavera, senza fiori, senza veli senz’altro seguito che quello della mamma, feci la mia Prima Comunione. Mi pare, se non erro, che ciò fosse nel 1844.

Mi sono trattenuta troppo sopra questi miei avvenimenti, solo perché sappiate quante grazie ho ricevuto da Dio.

 

 
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Revisione del 27 gennaio 2004