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Vicende politiche
di Emilia Belzoppi
   
Eventi locali dal tempo della morte di Gregorio XVI all'elezione di Pio IX. Patrioti a San Marino. W le Costituzioni italiane. Ospitalità ai rifugiati. Tempi di eroismo I cinque cugini Madruzza alla guerra. Peppe prigioniero dei tedeschi. Garibaldi in fuga.
Era il 28 luglio 1849 Ugo Bassi, sacerdote levita.
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Frattanto le vicende politiche si succedevano con rapidità.

Era morto Gregorio XVI, sotto al cui papato tanta gioventù languiva in fondo alle carceri e più di un capo erasi rotolato ai piedi del carnefice; tutte queste cose predisponevano l’animo a desiderare un cambiamento che avesse migliorate le condizioni di questa povera Italia, fatta bersaglio di prepotenti stranieri che la dilaniavano barbaramente.

Ricordo con dolore d’aver veduto, da monte dei Cappuccini, passare, scortati dai soldati pontifici, quattro birocci di giovanotti signori e popolani, carichi di catene, per essere tradotti al forte di S.Leo. Babbo e mamma, che noi tutti seguimmo, giungemmo per mezzo di uno scosceso e ripido sentiero, sulla strada maestra appunto quando essi arrivavano. Molti erano nostri conoscenti, nostri amici.

Fermarono un istante i carri e si poté stringere loro la mano e babbo e mamma dicevan loro parole d’incoraggiamento e di speranza. Il nostro cuore detestava gli oppressori, compiangeva gli oppressi, mentre il ciglio mandava lacrime di sincero cordoglio.

Giovanni Mastai Ferretti venne eletto pontefice e si chiamò Pio IX. Uomo di animo generoso e di cuore magnanimo, fu compreso da pietà per tante vittime d’inutili sforzi, che languivano nelle carceri o subivano le miserie e le privazioni dell’esilio ed emanò un perdono generale esclusi gli omicidiari.

Questo tratto di generosità, che seguiva uno stato forzatamente dispotico, comprese gli animi di tale entusiasmo, che, a mio credere, la storia non ne segna di simili. Seguirono poi le Costituzioni degli altri principi e Re Carlo Alberto proclamò la guerra d’Indipendenza. Fu un entusiasmo che comprese tutti i cuori ed anche noi repubblicani ne prendemmo vivissima parte. Il grido di “Viva Pio nono, viva le Costituzioni Italiane” suonava su di ogni labbro e riempiva l’animo di vera gioia.

La bandiera tricolore si associò colla bianca e celeste e se ne adornarono le finestre; e non vi era petto che non avesse coccarda di questi nostri amati colori. Anche da noi si fece la solenne festa ed ognuno fece del suo meglio per attestare il gradimento della riforma italiana e per dimostrare quanta parte ne prendesse il nostro vecchio e saggio Titano.
La sera vi fu teatro: illuminato a giorno e tutto adorno di fiori e di bandiere, gremito di gente che gridava evviva e dava in applausi frenetici per ogni parola che ricordasse Pio nono, Carlo Alberto, le Costituzioni, la guerra.
All’alzarsi del sipario, mentre tutti erano attenti per sentire il bellissimo inno patrio,

Salve o rupe de monti regina,
Ove l’aquila antica di Roma
Da vil laccio sdegnando esser doma,
Le grand’ali raccolse e posò -
Quivi amor della terra natia
Atto immenso sublima ogni petto,
Qui pietà del fuggente reietto
Qui la patria un asilo negò.,

vi fu un piccolo silenzio (così era convenuto col maestro di musica) ed io fatta in mezzo al palchetto, con la bandiera tricolore, gridai con voce ferma e robusta:

W le costituzioni Italiane

Seguì un moto istantaneo e tutti,

Ma Iddio lo stendardo - d’Italia levò,
E il piano lombardo - col dito segnò!!
Fratelli d’Italia - afforzi il sorriso
Se il popolo è libero - non resti diviso:
Siccome le braccia - sia forte il volere,
A suon di minaccia - sorgete o guerrier!

Questo è quanto ricordo: forse vi doveva essere un’altra strofa, ma poco monta. Ho messo quelle che ricordo per farne conoscere che le parole che contiene sono abbastanza entusiaste perché io potessi declamale con forza e coll’entusiasmo di che mi sentiva ripiena.

Fu una frenesia di applausi e con insistenza chiedevano il bis; ma babbo mi trasse indietro perché io gridava “Viva l’Italia, Viva la nostra repubblica, Viva Pio nono” e mandò innanzi la Giacomina, che declamò benissimo una poesia sopra Pio nono e fu applaudita. Dopo di che intonarono l’Inno.

Oh quelli erano bei tempi! Il cuore riboccava di gioia e di speranza! Tutto era pace, concordia, fratellanza!!

Qualche tempo dopo, per quanto ricordo, uno ad uno, questi Principi ritirarono le loro costituzioni; quel di Toscana, credo, andasse in Austria e si rifugiava presso i nostri più fieri nemici. Quel di Napoli ritirava i vantaggi accordati e Carlo Alberto cadde in sospetto di tradimento e dopo la battaglia di Novara, se ben ricordo, abdicò; e tanto si accorò per le calunnie d’infamia che si spargevano sopra di lui, che in breve morì.

Si disse che i Romani avevano posto i cannoni innanzi alle porte del papa e che questi si era miracolosamente salvato passando fra i soldati e si era rifugiato poi in Gaeta. Che cosa volevano i liberali?

Che rinunciasse al potere temporale, ma esso emise il “non possumus” e perciò fuggì.

Allora proclamarono la Repubblica Romana e per qualche tempo noi avemmo una sorella, ma una sorella assai diversa dalla nostra. Ammesso che i capi avessero tutta la buona intenzione di governarla bene, ciò non ostante era quasi inevitabile che tante canaglie uscite di galera, dessero pessimi frutti di sangue, a sacrificio di tante famiglie.

Figlia di un caldo repubblicano, io aveva bevuto dal labbro del mio babbo, amore ardente alla libertà e sentimento di sacrificio per il bene dei nostri fratelli; accolsi quindi con gioia la notizia di questa nuova repubblica. Ma babbo, uomo saggio ed esperto, prevedeva ciò che infatti avvenne e studiava e pensava per qualunque evento a salvare la nostra cara patria.

Qualche tempo dopo, si formarono nelle città le così dette Squadrazze, che erano composte dai più pessimi soggetti! Organizzarono la guardia civica ed ogni uomo era soldato dai 16 ai 60. Cominciarono le vendette e sotto il coltello affilato del sicario, per ogni città e per ogni borgata cadevano vittime, la maggior parte delle quali non aveva altro delitto che di badare ai casi propri.

Si videro, alla sua volta, ripiene le carceri di persone che non davano fastidio ad alcuno e passar destinati a S.Leo, carri ripieni di poveri vecchi, persone adulte e poveri rispettabili frati che eran fatti segno di ludibrio e di scherno.

Chi poteva lodare simili cose? Quanto era diversa la Repubblica Romana dalla nostra! Ma mentre babbo compiangeva questi eccessi diceva essere inevitabili conseguenze dei cambiamenti repentini di governo; che non si arriva ad un saggio governo senza vittime.

Ma Austriaci, Spagnoli, Napoletani e Francesi, che poco prima avevano combattuto per l’indipendenza, ora si armarono a sopprimere la repubblica sorella, la quale dopo disperata difesa, fu costretta a capitolare. Ma il Generale Garibaldi non volle patti e prese la via di Toscana con 3000 uomini circa, che non vollero lasciarlo.

Non so perché mi sia ingolfata in questi cenni politici che voi conoscete meglio che io non ricordi: forse le memorie così vive del passato me le ha messe sulla penna, senza che io neppure il volessi. Ora che ci sono proseguirò, ma prima conviene che io vi parli ancora alcun poco di me e vi dica schietto l’animo mio. -

Ai tempi delle guerre di Lombardia, che si trattava di dar la caccia agli Austriaci e tutta la gioventù accorreva ad arruolarsi per la santa causa, io pure sentiva il fuoco che inondava ogni petto di un buon italiano e rimpiangeva di non essere un uomo per imbracciare il moschetto e dare all’Italia anche il mio piccolo aiuto.

E mi esercitavo a maneggiare le armi, imparavo a caricare e ad ogni volta che ne avessi il destro era sempre attorno alla polvere, munizioni, capsule.

Quando il marchese Diotallevi, cugino di mammà, veniva in S. Marino, per gl’ingressi o per altri motivi, (aveva il grado di colonnello) veniva armato non solo delle armi del suo grado, ma anche di un grosso pistone, (così chiamavasi, un’arma corta che aveva una bocca come un cannoncino).

Lo portava nascosto in fondo al suo bellissimo legno a due cavalli e lo depositava poi nello studio di papà ove era una serratura che, all’infuori del babbo e della mamma, nessuno poteva aprire.

Ma io che il più che potessi era dietro al babbo, perché lo amava svisceratamente, perché mi piaceva sentirlo parlare, perché i suoi sentimenti finivano difilato tra i miei, mi trovai più volte presente quando l'apriva e, colla perspicacia di fanciulla che tale era allora, spiai il modo di aprirla (dove posava il dito e il moto della chiave) ... e appena ebbi il destro, provai e vi riuscii.

Da quella volta io era sempre là dentro: non vi era volume grande o piccolo ch’io non aprissi. Leggeva il frontespizio, l’indice e que’ capitoli che credeva interessarmi: coi latini, francesi, inglesi, guardava e passava oltre. Montava su per una scaletta sino agli ultimi scaffali che toccavano il soffitto, con pericolo di cadere; ma io non temeva assolutamente di nulla.

Quando dunque, poteva avere 15 anni e sapeva che il Marchese era fuori di casa, io correva ad aprire la porta, mi chiudeva dentro, prendeva in mano la terribile arma, ne misurava la carica, alzava ed abbassava il cane, alzava il coperchio del serbatoio della polvere, poi lo richiudeva: fortuna per me che era a pietra, altrimenti si sarebbe al certo esploso; ma non mi avrebbe fatto male, perché era pesante ed anche per una certa previdenza, teneva la bocca appoggiata sul davanzale della finestra. Nella cassa di legno in che era fermato, scopersi uno sportellino che aprii a mezzo di una molla e che era pieno di cartucce.

Il Marchese si chiamava Adauto; era alto di statura, piuttosto asciutto, bruno di carnagione, di fattezze nobili e regolari, gli occhi erano vivaci e grigiastri; baffi e mustacchi ispidi e brizzolati.

Era stato soldato di napoleone e conservava un fare maschio e risoluto. Aveva combattuto a Waterloo, sofferta fame sino a nutrirsi di qualche oliva trovata sulla neve per giorni interi! In Russia perdé un fratello, del quale vide i quarti appesi agli alberi brulli ed esso scampò a tanto disastro.

Conservava il fare militare e al suono del tamburo, al luccicar delle armi, al nome di guerra ... si elettrizzava e tornava giovane e soldato. Trovava piacere nel trattenersi meco, perché io gli facevo molte domande, dell’armi, delle battaglie, del valor militare, del bel morire sul campo per la libertà della patria!

Mi teneva ritta fra le sue ginocchia, una mano sulla spalla, mi guardava con compiacenza e diceva:

“Peccato che tu non sia un giovanotto!!”

E diceva di condurmi seco alla guerra di Lombardia, che mi avrebbe come figlia, che avrei dormito sulla paglia protetta dal suo braccio: ed io sentiva in cuore l’ardimento di seguirlo, spinta dall’ira contro lo straniero e dall’ardente amore per la patria comune che chiedeva ed aspettava in massa i suoi figli alle rive del Po.

Le donne non nascono per maneggiare le armi, nascono alla sommissione, al lavoro, all’ubbidienza, all’amore. Ogni sentimento generoso deve restare nel nostro cuore solo trasfonderlo nei nostri figli, nei nostri fratelli, nei nostri amanti. Non sia la donna che affievolisca l’ardimento maschile, ma l’aumenti e l’avvalori collo spingerlo alla difesa della patria: gli punti la coccarda sul petto, gli cinga la spada e lo congedi senza lacrime.

Eran tempi di eroismo e di grandi sacrifici, ai quali ben pochi, che vigliacchi eran detti, si rifiutarono.

I cugini Madruzza erano cinque e tutti si dedicarono alla patria, Peppe e Checco nella legione Studenti e gli altri in altri battaglioni. Sicché di cinque non ne rimase uno a consolare i poveri genitori. Combatterono più volte; il primo scontro sulla montagna di Bologna, Peppe ebbe una palla nella placca della cintura che fermava la tunica e Checco sul cappello che venne forato da parte a parte. Inoltratisi in Lombardia, combatterono a Treviso, a Vicenza e dopo la famosa battaglia che costò la perdita di tanti uomini, Peppe si accorse che il fratello Checco mancava.

Da animoso quale egli era, lo cercò fra i morti, sollevando il capo a quelli che avevano il viso rivolto nella terra, ma non lo trovò! Dopo tre mesi si seppe essere prigioniero dei Tedeschi e si viveva tutti in pena per la sua vita. Dopo sei mesi accadde il cambio dei prigionieri e tornò. Il racconto de’ suoi patimenti era una storia tanto commovente che strappava le lacrime.

Gli tolsero il denaro, li forzarono a camminare per lunghe tappe e quando, affranti dalla stanchezza, arsi di sete chiedevano un sorso di acqua, veniva loro accordato solo se restava dal beveraggio dei loro cavalli. Esso aveva provato il??? della fame e niuno gli dava il pane! Si sentiva spinto a chiederne per elemosina un tozzo ... ma non ne aveva il coraggio: finalmente la fame la vinse e allungando la mano disse:”Ho fame!!!” e dette un scoppio di pianto dirotto.

Giunti finalmente al luogo di destinazione, li posero in prigioni umidi e fetenti, pigiati e stretti uno accanto all’altro, con poca paglia per giaciglio; e ad ogni giorno ne cavavano uno, dicendo in cattivo italiano “domani un altro” lasciando così pensare a quegli infelici che il compagno fosse tratto a morte, lasciando gli latri in una terribile alternativa per il domani.

Dopo sei mesi vi fu il cambio dei prigionieri e Checco rimpatriò: ma non era più quel di prima; una impronta di mestizia si era impossessata di lui e non lo lasciò più.

La sua Giangia, amante che teneva fin da giovanetto, gli era rimasta fedele e formava forse la sola sua consolazione, perché questo suo amore era contrariato, combattuto da ambo le parti.

Esso versava nel mio cuore tutte le amarezze del suo, come io non aveva nessun segreto per esso ed era il mio saggio consigliere.

Così, di avvenimento in avvenimento, giunse il 29 luglio 1849. Si dal primo mattino e dai giorni innanzi si seppe che il Generale Garibaldi era a poca distanza, inseguito dalle truppe Austriache e che a S.Angelo in Nado aveva sostenuto uno scontro e scemata la legione di varie centinaia di uomini. Gli animi erano compresi da interesse e pietà, quando appunto la notte del 29, venne dal babbo che era Reggente, un ufficiale mandato da Garibaldi, che dissero Quartiermastro, a chiedere, a nome del Generale, il permesso di attraversare il nostro territorio, unica via più breve per giungere al mare.

Babbo, che aveva fatto uno studio particolare sulla diplomazia, sapeva come trattar doveva in ogni evento, fra governo e governo e, forte in cuor suo nell’amore alla libertà, non pose tempo in mezzo e scrisse al Generale esortandolo a desistere da questo divisamento per la sicurezza della Repubblica e finì dicendo: “Speriamo riceverete di buon grado questa comunicazione e che i principii che voi professate Vi faranno interessare per la conservazione di questo antico asilo di pace e di libertà, impedendovi ogni conflitto che noi temiamo inevitabile, ove mandaste ad effetto il vostro divisamento.”

Il dì dopo, un messo trafelato ed ansante, dagli occhi ardenti, dalla barba nera, chiedeva del Reggente e fu introdotto da papà. Si seppe poi che era Ugo Bassi sacerdote Levita, che aveva consacrato la vita alla salvezza d’Italia facendo del suo meglio per confortare i poveri morenti.
Espose la necessità che avevano di fermarsi sul territorio e papà disse a voce ciò che aveva scritto. Il povero Ugo, con accento di dolore espresse il miserando stato della intera legione, bisognosa di pane e di riposo esposta ad una inutile carneficina per mano degli Austriaci che sbucavano dai monti, se la nostra terra negava ospitalità.

Babbo si commosse fino alle lacrime e lo congedò assicurandolo che avrebbe mandato viveri e soccorsi al confine. Tutti, a gara, si davano attorno per prestar viveri ai poveri Garibaldini: fin le Suore, i Francescani, i Cappuccini dettero il più che potevano per ristorare que’ poveri derelitti.

Al sorgere del sole del 30 Luglio, dovevano, o meglio erano in moto per portare il promesso soccorso, quando dal monte Tassona si udì il rombo dei scariche di moschetto che l’eco ripercuoteva lugubramente di monte in monte e, giungeva al nostro orecchio e addolorava il nostro cuore.

Questo fu l’ultimo scontro e abbenché opponessero disperata difesa, mancanti di tutto, furono costretti a ritirarsi sul nostro territorio.
Ricordo averli veduti arrivare alla spicciolata laceri e spauriti da far pietà! Era veramente un crepacuore vedere tanta povera gioventù, fiori di giovani gagliardi e valorosi, ridotti in quello!

 
Presentazione
13 luglio 1892
I Cappuccini
Grandicelle
Viva Belzoppi
Il buon santolo
Altri dolori
Papà Reggente
Vicende politiche
Garibaldi rifugiato
Gli esuli
I giovani dalmati
Omicidi
Onoranze
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  Autodifesa
  Poesie
Frammenti
  Fratelli di Candia e Grecia
Revisione del 27 gennaio 2004