ti trovi in:  > I miei blog  > Remoto, ma sempre presente
Papà era Reggente
  di Emilia Belzoppi
   
Papà era reggente per la seconda volta. Insurrezione a Rimini. Repressione dell'Aquila grifagna. Preoccupazioni in famiglia. Satagat, l'omicida. Tra i rifugiati c'era chi aveva le mani macchiate di sangue. Minacce durante le passeggiate con la mamma. Nasce Tina. Emilia aiuta in casa: guardarobiera. Un'amicizia pericolosa. I cugini Madruzza. Leggi anche ...

 

Era l’anno 1845 e, se ben ricordo, papà era reggente, per la seconda volta, quando in Rimini scoppiò una rivoluzione mossa da un pugno di ardimentosi, con a capo Pietro Renzi; essi levarono le armi al presidio e presero il comando della Città.

Forse speravano che questo tentativo trovasse eco in tutte le città d’Italia e, come piccola scintilla, suole talvolta sviluppare indomabile incendio, così si sperava che l’ira repressa da lungo tempo, si fosse rovesciata insuperabile e forte sugli oppressori.

Ma non fu così.

Dalle cime del nostro Titano si sentiva rumoreggiare il cannone degli Austriaci che, prontamente, da Ancona erano accorsi a sedare questa piccola insurrezione.

Vista l’impossibilità di sostenersi, cercarono, colla fuga di sottrarsi alle unghie dell’Aquila grifagna e ripararono in San Marino. I reggenti dettero loro il riposo di pochi giorni e il transito libero per la vicina Toscana.

Se non erro, doveva essere in Novembre, perché vi era una leggera nevata il mattino che partirono; e noi, dalle finestre che fanno frontiera e guardano il mare, li vedevamo fare i preparativi, apprestare cavalcature, aiutati dagli amici e cordiali Repubblicani.

Papà passeggiava concitato e pensieroso e si fermava, di quando in quando, a guardare quel pugno di uomini che, senza speranza di riuscita, andavano esuli col sacrificio delle loro famiglie.

Vidi tra questi un gobbo che posero in sella come si mette un fantoccio: gli dettero un’arma, lo avvilupparono nel mantello e lo avviarono in fila. V’è n’erano dei vecchi, v’è n’erano poco più che fanciulli: direi più di una trentina non fossero.

Quando furono partiti - Povera Italia! - sospirò il babbo e non aggiunse verbo, mentre noi cercavamo spiegazioni e una ben triste idea ci eravamo formate dei rivoluzionari, vedendoli pochi e da muovere compassione.

Il paese era sempre pieno di emigrati politici, che il nostro governo, mite e ospitaliero, tollerava almeno finché avessero potuto procurasi il modo di mettersi in salvo. Ma purtroppo fra questi ve n’erano molti che avevano le mani tinte di sangue e si davano, occultamente, ad insinuare sentimenti feroci alla gioventù, spronandoli alla ribellione, alla vendetta, all’omicidio.
Un livore lungamente represso, che ebbe origine nel ritorno dalla prigionia del babbo, per la universale esultanza e dimostrazioni popolare, attendeva in silenzio l’istante propizio per riversarsi ad amareggiare l’esistenza di un’intera famiglia. Se il volessi potrei porre qui il nome di questi tali ... ma il babbo perdonava ed insegnava di perdonare ... ed io mi taccio.

Di giorno in giorno, accrescevasi il numero degli omicidiari ed il vicino governo papale ne chiedeva lo sfratto. Il consigli Principe prendeva blande misure; decretava tempo 15 a 20 giorni a partire, dopo di che si procedeva ad alcune investigazioni che erano sempre prevenute da avvisi.

Da ciò presero argomento i tristi, di insinuare che le contrarietà provenivano tutte dal Belzoppi, che esso scriveva al governo pontificio, di chiederli, calunnia falsa, bugiarda e vile, che poneva la vita del nostro caro genitore a repentaglio di venire troncata dallo stile dell’assassino!!

La mamma viveva in continua agitazione: si pregava sempre per la conservazione del babbo; la nonna, vera anima santa, orava continuamente e noi eravamo meste e pensierose, allarmate. La sorella Giacomina ed io eravamo sempre alle vedette, nelle giornate di udienza.
Alcune notti riceveva nello studio e noi, col cuore palpitante, ce ne stavamo nascoste dietro l’uscio, pronte a gettarci alle ginocchia di colui che avesse fatto il più piccolo atto d’inveire contro l’amatissimo babbo, persuase che la pietà, passando su quell’animo folle, avrebbe disarmata la destra pronta a ferire.

Un giorno, accolse nella camera di ricevimento, un tale che appellavano col nomignolo di - Satagat l’omicida -; chiese al vecchio donzello che stava alla porta di entrare dal Reggente.

Il povero vecchio si oppose, allegando che non era in arnese da presentarsi al Principe; ma questi, ardito e baldanzoso, inoltrò. Papà, sentendo un alterco, venne nella sala, appunto quando costui varcava l’uscio.

Era alto di statura, portava la testa indietro un po’ verso destra; aveva la faccia abbronzata e gli occhi truci; una berretta rossa, posta indietro, lasciava dondolare una nappa pure rossa ed un ciuffo di capelli ispidi e rosso scuri compiva il ritratto della testa.

Non aveva giacca: le maniche della camicia erano rivoltate sin sopra il gomito e lasciava vedere due braccia nerborute; i calzoni, fermati alla cintola, ne compivano l’abbigliamento, ovvero gli davano l’aspetto di carnefice. Noi guardavamo non viste; il nostro cuore batteva forte ed avevamo presagio di sventura.

S’inoltrarono l’un verso l’altro: babbo era serio, impassibile, incuteva rispetto. “Levatevi il berretto” - disse con voce ferma:

“Siete innanzi al vostro superiore. Non è questo il modo di presentarsi al capo del governo al quale venite a chiedere ospitalità.”

Tanta fermezza lo soggiogò: abbassò un istante lo sguardo sotto l’influsso dell’occhio calmo e severo che lo fissava e, con moto istantaneo si levò la calotta; man mano che veniva esponendo lo scopo di quella visita, si copriva le braccia allungando le maniche fino al polso.

Avrebbe voluto restare tranquillo sul nostro territorio e che il Reggente lo avesse assicurato che non sarebbe molestato, né consegnato, ma babbo lo rimandò, dicendo che la legge è uguale per tutti e che esso era là per farla osservare, perché prendesse quelle misure che credeva migliori per la propria salvezza.

Così noi crescemmo angustiate negli anni più belli. Quando, al venire della primavera, la cara nostra mamma ci conduceva a fare delle lunghe passeggiate al sole (poiché in Borgo non si vedeva che in estate) o a S. Giovanni sotto le Penne, o al confine verso Verucchio, più e più volte fummo salutate col “Morte!!” che partiva dal Cantone, o dalla Rocca, o dal Macello che fanno fronte sul nostro Borgo, rimpetto a casa nostra e, quando si rasentava il monte, ci scagliavano di lassù anche delle pietre.

La mamma che era molto animosa, forse anche a riguardo nostro, non tornava indietro, ma proseguiva il cammino fin dove aveva divisato di andare.

In uno di questi anni era nata un’altra bambina, che era tutto il nostro amore; la Tina e lo è e lo sarà sempre per la sua bontà e per la sua virtù.

Frattanto il mio carattere aveva subito i salutari effetti degli interni conflitti e dell’ardente preghiera. Era riuscita ad essere amata, forse a preferenza, ad essere l’aiuto della mamma nell’azienda domestica, cosa per me di grande soddisfazione.

Era io che aveva le chiavi del magazzino, che riceveva dai coloni il formaggio, la frutta, i marzaroli; io che dispensava il pane ai poveri, il mangiare ai contadini. Segnava, pesava e faceva del mio meglio per farmi onore.

Non andò guari che ebbi un bel mazzo di chiavi alla cintola e fui anche guardarobiera.

Ciò fu di disturbo alle sorelle che mi fecero piangere e deposi le mie chiavi, dicendo che convenivano alla maggiore; ma dopo pochi dì, la mamma me le riconsegnò con assoluto comando di mai più deporle e le tenni fino al giorno che mi maritai.

Eravamo giovinette: la Giacomina faceva all’amore col consenso dei nostri, io aveva simpatia per un giovanotto nostro vicino che era bianco e biondo ed aveva due occhietti dolci e cilestri come i fiorellini del lino. Era tornata vivace. Un dì di carnevale si ottenne il permesso di mascherarci in buona compagnia.

Noi due eravamo vestite all’Italiana con pantaloni neri, blusa nera con cinta ai fianchi, un collare bianco al collo, cappello a cencio a larga falda, fermato con una bella piuma. Quel vestiario nero mi si addiceva a meraviglia, poiché ero esile, diritta ed avevo spirito. Anche la Checchina stava bene, ma era più tarchiata e non aveva punto vivacità.

Incontrai in città quel tale dagli occhi celesti, lo presi bravamente a braccio e mi presi il gusto di condurlo a passeggiare sotto le finestre di una giovane che lo pretendeva. Quanto mi divertii! Da quella volta, di giorno, non mi mascherai più.

Dirò qui che io aveva un’amica intrinseca, che amava teneramente e per la quale mi sentiva capace di qualunque sacrificio. La mamma che, nella sua esperienza conosceva in quella qualche cosa che non le garbava, mi proibì di trattarla.

Io non sapeva staccarmene: e quando appena finito il desinare domandava il permesso di andarmene, correva alla porta di sotto, le faceva un cenno (era nostra vicina) ed ella scendeva e ci abbracciavamo teneramente e piangevamo la nostra amara separazione!

La scongiurava a lasciare un amore senza fondamento e per il quale la mamma ci separava; tutto inutile; resisté vari anni e cadde. Lo sposò poi, ma visse vita tribolata e morì giovanissima.
Io soffersi per essa come per una passione amorosa; nel mio cuore aveva un culto; la sublimità dell’amicizia aveva in esso il suo altare e volentieri avrei arso ad incenso il sacrificio dei miei affetti, che veramente era

“Gemma nascosta in umil conchiglia solitaria
che per la man d’artefice, venga alla luce all’aria,
benefica rugiada che mollemente cada
sull’arsa terra, a svolgere del pigro germe il fior”

Ma, purtroppo, ebbi ad accorgermi che anche in amicizia vi sono disinganni ... e questo fu il primo; nella rettitudine dei miei sentimenti, non sapeva darmene pace.

M’inoltrava nell’età della giovinezza: mi era fatta vegeta robusta ed un vivace incarnato coloriva le mie gote e spargeva sul mio volto la freschezza della rosa ancor non colpita dalla sferza cocente del sole.

Il mio occhio, brillava della innocente vivacità di 15 anni; la mente era feconda di pensieri rosati e fantasticava in cerca di un ignoto ... a riempire un vuoto che non arrivava a conoscere, in cerca di un che ... che non trovava e che mi era sconosciuto.

Fra poco divenni la prediletta de’ miei cugini, giovanotti che erano all’Università e che, al tempo delle vacanze, venivano a passare un paio di mesi in casa nostra. Erano due dei Madruzza, figli della sorella di papà, due degli Stagni, un Albertucci e spesso anche Adelmo Lorenzetti, figlio di una sorella di mamma, ch’io amava come cugino e che compiangeva per la sua vita piena di vicende, di pericoli e sempre lontano dalla sua famiglia.

Il maggiore dei Madruzza studiava chirurgia; di mezzana statura, di colorito olivastro bruno, di naso adunco, aveva due occhi neri vellutati che, a volte, si allargavano per dare allo sguardo una magnetica espressione.

Allorché si posavano, con insistenza, sopra di me, io mi sentiva quasi forzata a rivolgermi ove lui era, anche se non lo avessi saputo. Gli usava delle attenzioni, gli stirava la biancheria, ripuliva la sua stanza. Non so se queste piccole attenzioni fossero per esso attestati di amore, fatto è che, mentre una sera usciva al buio dalla stanza della vecchia zia Luigia, per recarmi in quella della mamma esso mi prese bruscamente per mano e, “Prendi” mi disse “Leggi e rispondi” e mi lasciò un bigliettino.

Fui compresa quasi da paura e corsi nella mia stanza. Erano frasi interrotte, infuocate come la sua anima da poeta! Non ammetteva scuse, diceva ch’io aveva bisogno di amare e sempre mi avrebbe amato come amano gli angeli del cielo, che la sua esistenza dipendeva da me.

Rimasi muta, ritta, immobile colla carta in mano, confusa senza sapere a qual partito appigliarmi! Fui chiamata e salii: cercò un momento che fossi sola e mi chiese “Hai letto?” “Sì.” “Che rispondi?” “Nulla per ora” - Fece un moto di stizza e si morse le labbra.

Io non lo amava: vi era troppa disparità dal suo naturale al mio: non era il mio ideale. Allegro all’eccesso, a volte diveniva cupo e taciturno, sarcastico sempre. - Era il capo degli studenti a Bologna; di molto ingegno, poeta facile, suonava maestrevolmente il violino e disegnava benissimo; il suo ingegnoso brio lo rendeva caro nelle conversazioni. Ma io non lo amava più che cugino: era sarcastico; non era il mio ideale.

Mi trovavo molto volentieri con Checchino suo fratello che aveva solo un anno meno di me. Era alto, sottile bianco. Aveva da piccinino perduto uno dei suoi occhi neri: la sua testa era ricca di capelli biondi e ricciuti. D’indole dolce, mesto per consueto, non si lasciava mai andare ad allegria spinta: esso aveva provato e provava tuttora, gli effetti della sua disgrazia, che inconsideratamente gli veniva rammentata. Io era la sua confidente ed esso era il mio. Noi non avevamo nulla da celarci e quando eravamo lontani, ci confidavamo i nostri dolori e ci davamo i nostri consigli, a mezzo di lettera.

La mamma un dì mi chiamò e disse che Peppe le aveva detto che mi amava: che io era perduta s’ella non acconsentiva al nostro amore e che io mi sarei presa tale una passione da perdermi la salute. Dissi alla mamma di non prendersi pena e mostrai l’animo mio. Dopo di che esso si fece bisbetico, urtante, m’inquietava, mi faceva arrabbiare.

 
Presentazione
13 luglio 1892
I Cappuccini
Grandicelle
Viva Belzoppi
Il buon santolo
Altri dolori
Papà Reggente
Vicende politiche
Garibaldi rifugiato
Gli esuli
I giovani dalmati
Omicidi
Onoranze
  Lettori
  Episodio
  Belzoppi
  Emilia
  Capitano reggente
  Autodifesa
  Poesie
Frammenti
  Fratelli di Candia e Grecia
Revisione del 27 gennaio 2004