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Grandicelle
di Emilia Belzoppi
   
Continuano i ricordi d’infanzia. La mamma racconta delle vicende politiche
in cui si trovò implicato il padre Domenico Maria Belzoppi.
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Un giorno che il tempo era nevoso ed una tramontanina che passava le vesti ci teneva più strette attorno alla mamma ed eravamo più serie e più concentrate, dopo un po’ di silenzio, saltai su a dire:

“Mammina, ma che era quella sera tanta gente in casa nostra? Perché tanti dolci, tanti liquori ed il fattore ed altri davano da bere a tutti sotto il porticato?”

Io andai sulla porta che era aperta per intera, ma tornai su subito; mamma ci guardò in silenzio, tutte, che avevamo gli sguardi fissi su di lei, poi disse: - Ormai siete grandicelle e gli avvenimenti della famiglia non devono restarvi celati.

Ascoltatemi.

“Era l’Agosto del 1834 e babbo si recava in Toscana, governo, come sapete, del Gran Duca Leopoldo, con certi dispacci che dovevano restare occulti allo Stato, non solo Pontificio per il quale doveva transitare, ma anche al Toscano ove lo attendevano vari amici.

Quando un governo cerca schiacciare un popolo con imposte, con leggi umilianti, quando chiama l’intervento dell’armi d’altri governi per sostenersi, per farsi temere, allora il popolo cerca ribellarsi ... scuotere il giogo ... e congiura.

Congiura in segreto, per congiurare contro il dispotismo e si crea in mente un governo libero ove il popolo regni sovrano e la libertà e l’eguaglianza rendano tutti gli uomini fratelli!

Questo è il sogno di una gioventù inesperta, ma animosa e pronta a soffrire ogni stento ed ogni abnegazione, pur di conseguirne il fine. Si è veduto il fiore dell’Italica gioventù passare per le nostre città, per le città carico di ferri, soffocare sotto i piombi di Venezia, poi tradotto allo Spillbergh colle catene ai piedi, condannati a vent’anni di carcere e buona parte per lasciarvi la vita ... mentre tutte le prigioni dello stato riboccavano di prigionieri politici!

Vostro padre, benché nato in suolo libero, sentì la pietà di tanti infelici e, per amore del sofferente, si affratellò con essi e pose il suo ingegno ed il suo cuore, unito ai fratelli della patria comune, l’Italia. Ora esso credevasi sicuro, pensava che, come da altro governo, non sarebbe osservato ed avrebbe potuto trattare le cose senza pericolo e senza essere osservato.

Ma non fu così.

Un vile, un Giuda, si fece delatore e, mentre il babbo traversava lo Stato Pontificio, passando per i monti, a cavallo ed in compagnia di un suo fido colono, si vide improvvisamente sbucare d’attorno degli uomini armati, dei soldati pontifici. Non pose tempo in mezzo e, colla prontezza disperata di chi vede la morte innanzi agli occhi, levò una carta che custodiva, se la pose in bocca e, masticatala in fretta, se la ingoiò. Sopraffatto dai soldati fu levato di sella, gettato a terra e, colle ginocchia sul petto, forzato a rigettare la carta con tanto sforzo ingoiata. Quanto può mai la forza della volontà. Oppose resistenza e da quel poco che rigettò, neppure un nome poterono leggere ... che se lo avessero letto, ogni nome era una testa che avrebbe rotolato ai piedi del carnefice!”

La mamma si fermò per asciugarsi una lacrima e vi fu lungo silenzio. Ella taceva ... forse il pianto le impediva la parola e noi, oppresse addolorate ...pensavamo, senza osare d’interrogarla ancora. Dopo qualche tempo riprese.

“Lo caricarono di ferri e lo condussero nel forte di S. Leo e, dopo qualche giorno, passò da Verucchio in mezzo ai soldati; La Signorina Adelaide Ripa, vedutolo in tale stato, ne provò tanto dolore che cadde come cadavere in terra.

Poi lo condussero a Rimini e finalmente alle carceri di Forlì ove stette sei mesi. Mie care, quanto soffersi! Se aveste veduto il dolore ... la disperazione ... la confusione del fido Matteo Tamagnini nel tornare senza il suo giovane padrone!

Non trovava parole ... non sapeva che dire e piangeva come un ragazzo. Mi sentivo spezzare il cuore! Eppure dovevo vincermi. Avevo i poveri vecchi genitori che, al nome di carcere, annettevano disonore; li vedevo dolorare da mane a sera e non dormire la notte, non mangiare a tavola, per la mancanza di questo unico loro diletto.

Mi sostenni un poco, ma finii con l’ammalare gravemente e fui anche sacramentata. Il cognato Ambrogio Stagni, che spessissimo veniva da Cervia, ove era impiegato ed il Prof. Bergonzi, che mi curava, scrivevano a Domenico, sempre diminuendo lo stato grave nel quale mi trovavo e volevano ponessi la firma per tranquillizzarlo, ma io non vedevo e lo facevo per abitudine e Dio sa come.

Finalmente cominciai a riavermi: la speranza che mi facevano concepire il desiderio di andare a vederlo, di giovargli, mi animava; facevo del mio meglio per ristabilirmi.

Appena possibile, mi recai, accompagnata da Stagni, a Bologna dal Cardinale che era Delegato ed esposi l’innocenza del mio caro Belzoppi e pregai per i suoi vecchi genitori dei quali era unico figlio, per tre innocenti creature delle quali era padre ... e per me, che avevo bisogno di un sostegno nel compagno che Dio mi aveva dato.

Mi rimandò alquanto sollevata ed ebbi il permesso di parlargli alle carceri. Presentammo al Colonnello Freddi l’ordine di vederlo. Se volessi dirvi lo stato mio … di aspettativa e, nel tempo che fui con esso, non lo potrei!

Il Colonnello restò sempre presente, involto in un mantello nero: sembrava il genio del male e teneva in mano l’oriolo e, spirata la mezz’ora accordata, ci separò! Avrei voluto dirgli tanto! ma la parola moriva sul labbro e la presenza di colui mi gelava.

Partii rammaricata di non avergli detto tutto quello che era necessario e tutto quello che il mio cuore avrebbe voluto dirgli!”

La mamma si tacque e pianse alquanto in silenzio, mentre noi esterrefatte, non pronunziammo verbo, né battemmo palpebra.

 
Presentazione
13 luglio 1892
I Cappuccini
Grandicelle
Viva Belzoppi
Il buon santolo
Altri dolori
Papà Reggente
Vicende politiche
Garibaldi rifugiato
Gli esuli
I giovani dalmati
Omicidi
Onoranze
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Frammenti
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